Rolando Stefanacci Artista.
Rolando Stefanacci è nato a Vernio (Prato) il 5 agosto 1931 ed ha abitato per molti anni nella villa “Il Gabbiano” nel comune di Vaiano. Nel 1993 si trasferisce a Monteverdi Marittimo nel Comune di Pisa e si stabilisce nella villa “Le Querciaiole” che trasforma in un grande parco-museo. Non lusingato dall’attività espositiva (che pure gli regala soddisfazioni e consensi) Stefanacci esegue per commissione nùmerose sculture e ceramiche per i comuni di Prato, Monghidoro, Agliana, Monteverdi e diverse altre città della Toscana, per la Germania e, recentemente, per l’Australia, con il progetto di una grande fontana per una piazza di Sidney.
Uno scultore che ha scelto la via alchemica per interpretare le sue opere, germinate dalla conoscenza di filosofie esoteriche e dei maestri di vita di tutto il mondo.
…”la verità è come un grande albero, più viene curato e più da frutti; e più si scava nella miniera della verità, più vi scoprono le ricche gemme che vi sono sepolte”…
M. K. Ghandi
La scoperta della pittura
“Quando giungi alla conoscenza arriva la morte fisica”.
Potrebbe sembrare una frase grossa e sottilmente presuntuosa. Rolando Stefanacci, artista pratese emigrato a Monteverdi sulle colline Pisane ai limiti del territorio della provincia di Livorno, così afferma con la convinzione di chi si è lasciato alle spalle la materialità per tuffarsi nella spiritualità.
Il discorso é chiaramente simbolico, per sottolineare come la sua ricerca, attraverso gli studi esoterici e l’alchimia, poi rapportati alle sculture degli ultimi venti anni, sia affidata ad alcune consapevolezze, emerse e poi esplose dalle conoscenze alchemiche, ermetico-cabalistiche e dalla lettura dei geroglifici egiziani, che lo pongono in una dimensione mentale che supera e quasi dimentica i canoni tradizionali della realtà per imporre un discorso strettamente personale, quello che lui stesso definisce “la sua realtà”.
Un preambolo che risulterà necessario nell’affrontare un’analisi, sia della sua vita che del suo lavoro d’artista, proprio perché il simbolo, l’essenza delle cose, costituiscono il fulcro della sua ricerca, vorremmo dire il suo.
Pensieri e Simboli messaggio iniziatico. Quell’alchimia, che consiste nel trasformare in oro i metalli, ma che in sostanza equivale a trasformare l’uomo in puro spirito, e che rappresenta anche l’evoluzione umana da uno stato meramente materiale a uno spirituale. Ecco il nesso che lega con la ricerca di Stefanacci, spesso così ermetico, sia nell’esprimersi che nelle rappresentazioni delle sue opere, che talvolta sconcerta l’osservatore o l’interlocutore che desideri approfondire il suo messaggio e tenti di capirne i più reconditi significati.
E allora è necessario fermarsi e riflettere a lungo, specialmente sulle sculture di piccole e grandi dimensioni che hanno fatto e stanno facendo il giro del mondo, tutte permeate di pregnante spiritualità, e dove proprio il processo alchemico è il tramite del suo lavoro,
mai allegorico ma sempre simbolico (1). Una osservazione che non potrà mai essere superficiale perchè stimola a suscitare nel fruitore stesso dell’immagine -così come nell’analista- il desiderio di ritornare agli antichi splendori di virtù, conoscenza e saggezza.
“Il nonno” (1985)
Una lunga anticipazione prima di ripercorrere il cammino di Stefanacci attraverso la crescita graduale del suo essere artista, forse consapevole di esserlo fino da bambino, quando aveva velleità pittoriche che sarebbero esplose più tardi in questo ragazzo nato il 5 agosto del 1931 a Vernio, un paese montano della Val di Bisenzio in provincia di Prato.
Una veduta del cortile della villa “Il Gabbiano
Un luogo ricco di tradizioni storiche, dove Rolando -settimo di otto fratelli- carpiva i segreti della natura che locircondava con l’occhio sempre attento al materiale umano che sarà poi al centro del suo interesse, specialmente quando la sua affannosa ricerca si depurerà in qualche modo dal fatto estetico per privilegiare la sola interiorità e spiritualità attraverso una metodologia alchemica.
Un’opera grafica simbolica del primo periodo
Già da giovanissimo, a scuola, amava ritrarre i volti dei compagni, dei familiari, che costituivano le sue prime scoperte e che forse a livello inconscio lo tentavano, proprio perché nell’osservarli era già portato più a indagare gli stati d’animo che non i contorni e i tratti somatici. Già, questa, una intuzione delle future ricerche. Nella sua mente infantile coltivava forse la speranza di fare il pittore da grande. Ma da qualche parte aveva letto “chi di pittura vive morirà all’ospizio”, così il desiderio di farsi la cosiddetta “posizione” in qualche modo prevalse, e il giovane Stefanacci si dedicò a lavorare e commerciare quel materiale che fino dal lontano anno 1000 aveva fatto la fortuna di Prato, quella lana che, lavorata in mille modi, fa il giro del mondo e rende Prato la Manchester della Toscana.
E per lunghi anni le esercitazioni pittoriche dell’adolescente furono accantonate.
Ritratto di Mannini (1969)
Ma dalla collina del “Gabbiano”, uno sperone montano sopra La Briglia dove si era trasferito da Vernio, tornava prepotente il richiamo a quell’arte che era dentro di lui, che urgeva tanto da fargli riprendere in mano colori e pennelli. Erano passati molti anni, tuttavia quello che era stato un estro giovanile, non si era affievolito: agli inizi degli anni ‘60 aveva esposto per la prima volta alla galleria Giorgi di Firenze e c’era stato il primo riconoscimento al suo lavoro, per quei paesaggi toscani intrisi di malinconia e quei volti scavati dalla sofferenza, personaggi per lo più presi dalla strada e ritratti di costume, e dame magnetiche nello sguardo.
Stefanacci ammette di essere stato affascinato dai grandi maestri del passato, visitando nei musei francesi e svizzeri in particolare gli impressionisti, da Degas a Manet, da Renoir a Toulose Lautrec, fino ai grandi napoletani dell’800. Aveva captato in questi forti contrasti di macchia, un sottile valore simbolico e, sia pure con propria intuizione, lo aveva trasferito nei suoi lavori facendo scrivere a Cecilia Toschi, in un lucido articolo su “Eco d’Arte” dell’ottobre del ‘73, che “..un’eco di questo mondo figurativo permane in alcune opere del nostro artista, anche se rielaborata in un’emozione più omogenea e distesa, che lascia maggior spazio agli indugi cromatici e alle risonanze chiaroscurali..”; mentre altrove si sofferma sui “colori caldi che l’artista sa ricondurre al proprio discorso con sostenuto vigore, focalizzando con tocchi di luce il nucleo dell’opera, il contenuto che più gli sta a cuore…
La Rinascita (1960)
C’è un aneddoto che sembra essere alla base della sua rinascita artistica dopo il periodo in cui si era buttato a capofitto nel lavoro: un giorno il figlio Franco riportò alcuni disegni da scuola e lui li criticò.
“Perchè, tu li faresti meglio?” fu la risposta del figlio. Fu così che ricominciò.
Dopo quella sua prima mostra, altre ne seguirono anche se Stefanacci non ha mai creduto alla notorietà attraverso la proposizione in pubblico. Peraltro -stimolato anche dagli amici e dagli estimatoriinviava qualche suo quadro ai premi di pittura (più per verifica che per altro) e nel ‘68 faceva centro in un concorso dedicato a Vittorio De Sica a Roma a cui avevano partecipato trecento pittori italiani, ottenendo il primo premio che gli fu consegnato nel corso della “notte degli oscar”. Meritò, per questo, la pubblicazione sulla rivista “Arte mercato”, mensile internazionale di arte contemporanea. Fu definito, nella motivazione, “il pittore della meditazione e del silenzio” e nei suoi paesaggi toscani si riconobbero “toni e contenuti profondi, vibranti come note musicali che danno la sensazione di un intimo linguaggio ritmico.”
Stefanacci quasi si schermisce quando gli si chiede di raccontare le tappe della sua vita, specie quelle iniziali, ormai lontane nella memoria e dalle attuali ricerche tutte tese ad obiettivi più concreti. Ma anche questo fa parte di una storia, di un percorso, anzi diremo che costituisce un po’ la base di una ricerca a tutto raggio qual’è stata quella di Stefanacci che ha sempre sofferto, ieri la pittura e la ceramica, oggi la scultura che nasce dai meandri della propria interiorità, sollecitata da profondi studi legati a quell’Arte Reale, cioè I’alchimia che altro non è che lo specchio naturale delle verità rivelate, o l’arte delle metamorfosi psichiche.
E’ un periodo quello a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, di grande prolificità, anche se Stefanacci diserta le gallerie lavorando quasi esclusivamente per se stesso. Ma è un lavoro che non passa inosservato: i suoi “vecchi” dal volto scavato e nei quali sembra emergere la sofferenza di un’intera umanità filtrata attraverso la drammaticità degli sguardi -nell’indagare sulla condizione umana- sono segnalati dalla critica, e Stefanacci viene catalogato nel “Quadrato” dove Wilson Domma scrive tra l’altro che “nei suoi quadri si nota una variante necessaria ad aumentare l’emozione che serve a drammatizzare il soggetto per poi riproporlo su una nuova scala di valori più efficienti..”. Ed é anche un lavoro che prelude, con la sua plasticità, al naturale passaggio alla scultura, per intima predisposizione dello Stefanacci a plasmare la materia.
Ma intanto, già dalla fine degli anni ‘50, Stefanacci affronta profondi studi alchemico-filosofici frequentando maestri di ricerca in tutto il mondo:
questi studi, che in parte modificano il suo modo di pensare, si mescolano alla riconquistata ricerca artistica e incidono profondamente anche sui risultati formali e contenutistici, sia nel realizzare dipinti a olio (poi progressivamente abbandonati), sia la grafica, la ceramica, la muratura, fino alla scultura della pietra e del bronzo. E’ un sovvertimento di idee che gradualmente diventa totale: la componente esteriore, diciamo anche estetica, che comunque non ha mai rivestito per lui un ruolo predominante, si trasforma in significati simbolici rappresentati dal progressivo approfondimento nello studio di quell’alchimia che è una mistica “senza Dio” che si basa sulla conoscenza.
(1) “Un simbolismo autentico ha per condizione che quelle cose che si differenziano per tempo, spazio, Forma o altre circostanze, possano avere medesima essenza” (T Burckhardt)